Non chiamateli mister

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L’esterofilia può essere patologica. Non perché l’erba del vicino è sempre più verde, ma a causa dell’inconsapevolezza con la quale ne abusiamo. Si dice sia un difetto da italiani, tuttavia, siam sinceri, quando pensi all’Italia non ti viene voglia di guardare oltre?

Guardarono oltre anche i dirigenti del Genoa Cricket and Football Club nel luglio del 1912, quando chiesero ed ottennero la disponibilità di William Garbutt ad allenare la loro squadra di calcio. Perché in Italia allenatori come l’inglese non ce n’erano e perché, tra le altre cose, Garbutt per migliorare la multilateralità dei propri giocatori proponeva allenamenti durante i quali i destri si allenavano col piede destro scalzo ed i mancini col piede sinistro scalzo. Non c’ero centododici anni fa, ma era così difficile dire semplicemente di colpire la palla con l’altro piede, soprattutto perché il pallone non era l’avanguardistico Nike Ordem? E poi, la salute del giocatore, pur sbadato, non sarebbe preferibile alla pedagogia spicciola?

L’italiano è anche paraculo. Solo che non tutti gli italiani lo sanno ed allora si ritengono rispettosi. È come l’esterofilia, inconsapevole. E qual era il miglior modo per ossequiare l’allenatore del momento? Chiamandolo “signore”, ma non in italiano: “welcome to Genoa, mister William Garbutt!”

"Buongiorno, mister Garbutt"

“Buongiorno, mister Garbutt”
“Brava, Giovanna, brava”

Se ogni volta che vado in palestra, qualcuno mi chiama mister la responsabilità è anche di William Garbutt, meritevole di ricordo, inoltre, per aver dato il via alla pratica dell’evasione fiscale nello sport dilettantistico, lui, primo professionista in un mondo che ancora per una decina di anni non lo sarebbe stato.

“Conoscete l’inglese?”
“Sì.” “Un po’.” “Non tantissimo.” “Yes!”
“Vabbè, come si dice in inglese signore?”
“Mister.”
“E a 23 anni (ma lo ripeto da quando ne ho 16), basta qualche pelo sul viso (che a 16 anni non avevo) per darmi del signore? Se voi mi chiamate signore io vi dovrei chiamare bambini o ragazzi, anzi kids or boys.”
“Ma mister significa anche allenatore.”
“Tralasciando il fatto che non è così, dovrei chiamarvi centrale, terzino o portiere?”
“Va bene, Sergio.”
“Scusa, mister Sergio, posso andare in bagno?”

Mister non significa niente per un allenatore. È come la mamma puritana che dice al figlio che quello fra le gambe si chiama uccello. Dove sono le ali? E, dico a te, madre puritana, non devi dirgli che sentirai spesso chiamarlo cazzo, basta dirgli che si chiama pene. Non è volgare, è anatomia. E quelle più in basso non sono palline, perché non hanno forma sferica, sono testicoli, non coglioni.

E io, e tanti altri, siamo allenatori. Se siamo o meno signori, non è quello il momento giusto per farlo notare. Da dove nasce l’obbligo di chiamare le persone con il nome della loro professione? Il medico lo sa che è un medico, ed anche l’ingegnere! Io sono Sergio e ringrazio i miei genitori per avermi concepito molto prima che Gwyneth Paltrow, Francesco Totti, Christina Aguilera e Flavio Briatore rovinassero la vita dei loro figli. Siamo così mal ridotti da accrescere la nostra autostima sentendo gli altri chiamarci con il nome della nostra professione?

È importante dire, soprattutto, che gli allenatori solo noi li chiamiamo mister. Chi utilizza la parola mister nel modo giusto, gli allenatori li chiama coach o trainer. Parole che hanno anche una etimologia notevole: coach viene dal cocchio, indica qualcuno che conduce un altro verso una meta, trainer è colui che tira fuori qualcosa da qualcuno. Fra l’altro, trainer è stato usato per la prima volta in ambito sportivo nel 1823 e coach nel 1861. Arriviamo in ritardo e non offriamo al mondo qualcosa di migliore, ma peggioriamo una situazione lessicale esistente del tutto appropriata. E tu, Garbutt, non potevi fare meno il pavone e salvarci da questa deriva di insignificanza terminologica? O forse sto solo esagerando e tu hai la sola “colpa” di essere inglese. Per fortuna il calcio non l’hanno sviluppato i francesi, non avrei sopportato essere chiamato monsieur.

Allenare significa dare lena, ma anche stancarsi. Ed allenare viene anche da anelare, che non è solo l’atto di chi respira affannosamente, ma anche il desiderio ardente di raggiungere un obiettivo.

Non do la colpa ai bambini. Hanno sentito la parola mister dai genitori o dai giornalisti. Genitori e giornalisti che si spacciano per allenatori, per “tennici”, ma non hanno mai allenato e non sanno per niente cosa significa allenare, cosa si prova ad allenare. Neanche una squadra di fantacalcio.

“Mister!”
“Io sono Sergio, non mister.”
“Ma tu sei il mio maestro di pallamano e allora sei mister.”
“Sarò anche il tuo maestro, ma non ti ho mai chiamato allievo, tu sei Giuseppe. E poi qualche volta sono allievo anche io. Possiamo essere tante cose, anche nello stesso momento. Anche mamma e papà, potremmo chiamarli col loro nome, forse dovremmo.”
“Va bene, ora mi aiuti che non riesco a fare la verticale?”
Prima dell’allenamento successivo.
“Sergio, sei cattivo. L’altro giorno a fine allenamento sono andato da mamma, le ho detto che avevo fatto tutti i compiti e che la verticale era quasi verticale e pensavo di meritarmi un pacchetto di figurine in più, ma mamma non me ne ha comprato neanche uno.”
“Perché?”
“Perché non l’ho chiamata mamma, ma col suo nome. Ora io sono triste e mamma è arrabbiata, cosa posso fare?”
“Fai una verticale, magari ti si capovolgono i sentimenti.”

L'allenatore è un mestiere romantico.

Il romanticismo degli allenatori.

Allenare è la parola perfetta per indicare il mio mestiere. C’è dentro lo sforzo, il miglioramento, la fatica, la pulsione, la smania, il sogno. Allenare è la parola più romantica che conosco. E non si allena solo all’interno del campo. Non chiamatemi, non chiamateci, non chiamateli mister.

P.S.:

Non chiamatelo mister, e neanche allenatore. Mi hai deluso Poz, un'altra volta.

Non chiamatelo mister, e neanche allenatore.
Mi hai deluso Poz, un’altra volta.

Sergio Palazzi

Laurea in Scienze motorie e passione per sport e lettura. Destinato a sopravvivere. Sogna ad occhi aperti, perché i sogni ad occhi chiusi non li ricorda o non gli piacciono.

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  1. Francesco Panetta
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