Cinquanta sfumature di cibo

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Da anni, ormai, sono in voga mode salutiste che promuovono uno stile di vita improntato sulle sane abitudini alimentari e su consuetudini morigerate promettendoti, in cambio, vita eterna, bellezza e serenità.

Scaffali di supermercati e dispense domestiche sono ormai multietniche, pullulano di infusi e spezie dai sapori e dalle nuances più svariate.

Aumentano vertiginosamente i consumatori di fiori di Bach et similia e si moltiplicano sul web le pagine sulle proprietà benefiche del tofu, della soya, di alimenti dai nomi impronunciabili che, dal lontano e mistico oriente, approdano sulle nostre tovaglie occidentali a quadroni bianchi e rossi come elisir di lunga vita, depuratori di anime corrotte dalle scorie della vita moderna.

Le case sanno di bazar turco per l’abuso di incensi ed essenze che regalano attimi di relax ed ore di cefalee lancinanti, mentre il benessere del fisico passa attraverso discipline sportive che ti fanno bruciare una calorie e migliaia di neuroni impegnati a far sì che ciascun muscolo del tuo corpo diventi parte di un fantomatico equilibrio cosmico, astrale.

Ma lo stile di vita zen con annessi Osho, sveglia all’alba e meditazioni trascendentali è veramente troppo se sei un animale notturno, se ad Osho preferisci Bukowski, se, quando provi a fare meditazione , al posto di rilassarti, pensi alle innumerevoli situazioni che ti getterebbero nel panico, come l’idea di essere rapita e di finire tra i plastici di Bruno Vespa.

Insomma, anche io sono fortemente attratta da questo lifestyle che mi renderebbe una donna serena che trascina con sé effluvi orientali e passeggia con lo sguardo trasognato di chi ha appena ricevuto una dichiarazione d’amore da Jeff Buckley, ma sono, al contempo, un’irriducibile edonista.

Ho, quindi, optato per il benessere part-time: in casa salutista integerrima e aspirante vegetariana; colazione e fuori casa una betoniera tritatutto.

Specifico “a colazione” perché sono fermamente convinta dell’esistenza di un qualche demone che mi sputa fuori dal letto e che mi spinge verso il frigo in preda a crisi mistiche e visioni di santi che suonano le maracas, che mi rendono incapace di cernita e capace di ingurgitare qualunque cosa, dalla marmellata di mele cotogne agli avanzi di pasta al pesto di ieri sera.

Eppure all’ inizio le buone intenzioni c’erano tutte.

Addirittura ho avuto il coraggio di sentenziare una stronzata come ‘sono vegana’ .

In realtà proprio non ce la faccio a provare pena per la gallina che caga l’uovo che sto per mangiare, né per la mucca che, generosamente, dona il mio mezzo chilo di yogurt quotidiano.

Il vegetariano è già più elastico e collimerebbe perfettamente con il mio amore per gli animali.

Sono stata vegetariana tout court per 2 giorni terribili, poi ho integrato con il tonno perché mi sono autoconvinta che non fosse dotato di vita propria, ma nascesse dal nulla nelle lattine Rio Mare.

Poi è stato un climax ascendente che mi ha fatto approdare al merluzzo perché con quella faccia di cazzo figuriamoci se si rende conto che me lo sto mangiando, quindi al pollo perché tanto è un animale insulso, fino a cedere al fascino indiscreto della zampina e dell’ entrecote al pepe verde, del necessario perché gustoso, ma da concedermi al massimo una volta alla settimana, solo e rigorosamente se vado a mangiare fuori.

A casa devo essere stoica e resistere alle tentazioni del sott’olio e del soffritto.

Perché la vita è quanto mai beffarda e il mio colesterolo è imbarazzante.

Per anni e anni la cosa più sana nel mio frigorifero è stata una mousse del discount ai frutti di bosco. Immancabile.
Diciassette centesimi di delizia radioattiva. Consistenza spugnosa della cremina bianca e una vitamina moribonda nello sciroppo colloso rosso fuoco.
Psichedelia e bontà in un vasetto senza pretese.

I miei luoghi di fiducia erano quelli in cui compravo prelibatezze e batteri e, nei fumi dell’alcool, dispensavo il mio numero di cellulare ai migliori paninari della capitale e alle fraschette di Ariccia per essere sempre aggiornata.
I più indefessi continuano, a distanza di anni, ad invitarmi alle loro sagre della porchetta e del vino dei castelli romani.

Nonostante lo stile di vita lascivo, le mie analisi del sangue rasentavano la perfezione, l’armonia, il bilancio perfetto.

Adesso anche loro svelano la mia contraddittorietà, sono eloquenti come una seduta psicanalitica, ma non si esprimono con parole; sono responsi oracolari, parlano attraverso numeri arcani e lasciano basito chi le interpreta senza avermi di fronte e pensa di essere alle prese con Giuliano Ferrara in carne e grasso e non con me, Cecilia la smilza, gamba di ragno e dieta confusa.

Cecilia Sgobba Palazzi

In equilibrio precario tra realtà e fantasia. Guardo alla vita come ad una commedia buffa e le sorrido...con un ghigno malinconico.

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